Cattivi/Da una terra d'esilio

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Da una terra d'esilio

Gabriele Di Fronzo. L'Indice dei Libri del Mese, maggio 2015.

Il carcere è la cavità buia in cui è imposta la maggiore pressione atmosferica con cui la comunità può decretare di opprimere un suo membro. Per punirlo di aver violato una legge. Maurizio Torchio - che lavora al Centro Storico Fiat, ha esordito con la raccolta di racconti Tecnologie affettive (Sironi, 2004), ha poi pubblicato il romanzo Piccoli animali (Einaudi, 2009) - licenzia ora un libro che è il racconto di un uomo, inizialmente assegnato alla prigione per un sequestro di persona, e adesso ergastolano per aver ucciso una guardia carceraria. Dunque per sempre in cattività.

Cattivi è un romanzo che arriva da una terra di esilio, in cui nulla capita nel presente, e che necessariamente si concretizza in una scrittura reclusa e sorvegliata come è il suo narratore. Il vuoto che domina tutt'attorno suggerisce che si contrasti il silenzio con la monodia disperata di cui è ancora capace il prigioniero.

Il romanzo deve molto al canone della letteratura carceraria. C'è la crudeltà sadica delle guardie. C'è il carcere dell'isola che dà l'impressione di essere invalicabile (e più per via del mare che della sorveglianza), ci sono il filo spinato e le mura: come se nuotare fosse più difficile che superare gli uomini armati, le lamine arruginite del filo e la cinta muraria. Ci sono i giovani che fanno parte di organizzazioni criminali, per cui il carcere è un trascorso necessario e non se ne crucciano più di tanto. C'è il Comandante, uomo burocratico di decisioni totali. C'è Toro, il prigioniero nei cui confronti persino i secondini si guardano bene dal non avere le più affettuose premure. E a inserire il racconto nell'alveo della letteratura di prigionia, c'è anche il fatto che il carcere di Torchio è una miscellanea delle tante istituzioni carcerarie esistenti o esistite fino a poco fa, ed è quindi facile riconoscervi non un carcere ma il carcere.

L'unica cosa che manca più dello spazio nell'educazione fisica e mentale di questi uomini è la possibilità di una redenzione. Sono la consorteria delle violazioni che meritano il pane punitivo: un disgustoso composto di ingredienti semplici, come il latte in polvere, la farina, le uova e la carne trita, manomesso ad arte perché il buono si trasformi in cattivo.

Il protagonista ha partecipato al sequestro di una donna, figlia di un imprenditore del caffé, e per questo sarà giudicato e messo in carcere. Sembra che si tratti solo di una sospensione temporanea dei suoi processi vitali fondamentali, giusto per il corso della durata della pena, ma poi un giorno l'uomo uccide bestialmente una guardia e allora la cessazione delle attività consuete diventa irreversibile. Dentro, per sempre. Finita, per sempre.

Cattivi è la favola persino rosa di una prima clausura e convivenza coatta (nella caverna usata come base per il sequestro, lei è nominata la Principessa del caffè e lui ha tali riguardi che si intuisce provi un sentimento quasi d'amore per la prigioniera) ed è l'incubo nero di una seconda clausura e convivenza coatta: il carcere che tumula e impone la dimenticanza.

Perché l'istituzione carceraria di Torchio è anche il luogo dove l'oblio incontra meno attrito. Dove l'oblio anzi è lubrificato perché acceleri le pratiche di smaltimento. Si fa più in fretta che altrove a svanire. Da vivi, si è già scomparsi. Da morti, si sarà già morti in precedenza, ora lo stato va solo attestato nei registri perché qualcun altro possa avere la tua branda.

C'è una storia che arriva alle orecchie dell'uomo. Risale a un sequestro di anni prima. È la storia di un vecchio tenuto sottoterra che dispone, come unico ritaglio di luce, di una piccola lampadina elettrica. Questa rimane accesa fin quando ha carica, poi, se si spegne, l'ostaggio rimane al buio finché non tornano i suoi carcerieri. Un giorno, nonostante le due porte chiuse da superare, entra nello scantinato in cui sta il vecchio un uccellino. È volato fin lì sotto e adesso gli si è posato sulla spalla. È tranquillo, non sbatte le ali come a dire che vuole andarsene e neppure si lancia cieco contro le mura in cerca di una finestrella. Eppure quello che fa l'uomo è rompergli il collo. Ucciderlo. Subito. Non può rischiare che l'uccellino magari punti la lampada e forse la becchi e chissà la rompa.

Il buio è dunque l'antagonista di tutta questa storia. Il grande nemico. Quello contro cui battersi e soccombere a forza di conati di parole. Chi è fuori può ogni tanto mendicare l'ombra per trovarvi rifugio. Chi è dentro, sempre nel gorgo scuro, ambisce a qualunque scintilla fioca per avere l'illusione di un'evasione da fermo. Tra le mura chiuse, perché si evada dagli aspetti organici della vita, resta solo il racconto. Torchio ha scritto un magnifico romanzo dove per scappare dal mostro gli si parla dentro, nel suo ventre cavo e senza stelle, con l'illusione che ciò possa aprire una breccia o perlomeno rimbombare in una eco che faccia compagnia.


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