L'invulnerabile altrove/Nella testa della grigia ingegnera abita una piccola fiammiferaia di un secolo fa

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Nella testa della grigia ingegnera abita una piccola fiammiferaia di un secolo fa

Andrea Cortellessa. tuttolibri - La Stampa, 25 settembre 2021.

La realtà virtuale e l'azienda alienata in Tecnologie affettive; l'adozione, i giochi di ruolo, la vita dopo la morte in Piccoli animali; il carcere in Cattivi. I mondi di Maurizio Torchio - torinese del 1970, al suo quarto libro con L'invulnerabile altrove - sono universi circoscritti e, alla lettera, «alienati»: modelli in scala di mondi alternativi, paralleli e irraggiungibili, rispetto a quello in cui si è confinati. Mondi-monadi dei quali si può dire, con parole celebri di Rimbaud, che «la vera vita è altrove». Solo che l'esaltato voyant a quell' altrove tendeva, servoassistito magari da sostanze psicotrope; mentre già negli anni Settanta Milan Kundera lo parodierà in un romanzo furente di sarcasmo nei confronti di ogni «immaginazione al potere». La più inappellabile, l' invulnerabile condanna è quella in cui si scopre che il tanto desiderato altrove è equivalente - magari rovesciato, ma perfettamente simmetrico - al tanto detestato qui. Con altrettale esaltazione, «lì» si sogna l'«altrove» che, per loro, siamo noi. Chi meglio l'ha mostrato è il Leopardi del Coro di morti, nelle Operette morali: è dal «loro» punto di vista che la vita «al di là» - la nostra, cioè - è «cosa arcana e stupenda».

In questo nuovo, concentratissimo episodio della sua inchiesta - minuziosa e insieme evasiva, come una relazione del travet Franz Kafka per le Assicurazioni contro gli Infortuni sul Lavoro di Praga - la cattività inscenata da Torchio è la più radicale: quella nella nostra testa. Un bel giorno, si fa per dire, nella mente di una donna non più giovane .un'ingegnera ingrigita in una routine aziendale e nella più consuetudinaria delle vite borghesi, marito amante ufficio metropolitana - si materializza un' altra donna. Si chiama Anna ed è vissuta un secolo prima, quando - letteralmente - si ammazzava di lavoro in una fabbrica di fiammiferi. Ora si muove in un purgatorio di cui non vediamo che rapidi flash, dai quali capiamo che quei trapassati ben poco sanno non solo dell' aldilà dei vivi, ma persino della loro stessa vita anteriore (quello che chiamano il «Prima»). Sino alla fine la voce narrante non potrà dirsi certa che l' altra voce sovrapposta alla sua sia un «vero» fantasma, un'allucinazione psicotica, oppure un inganno di qualche «macchina» senziente come quelle con cui lavora. (Originale la soluzione adottata per distinguere le due voci: quella di Anna è stampata su fondo grigio, come s'era visto finora solo in certe edizioni critiche di classici dall'indecidibile lezione.)

Ci ricorda dell'apologo di uno filosofo, Hilary Putnam, quello dei «cervelli in una vasca» (ai «cervelli in laboratorio» a un certo punto fa cenno Torchio). Negli anni Ottanta era solo un «esperimento mentale» - illustrazione iperbolica del dubbio metodico di cartesiana memoria, e insieme della vita come rappresentazione di Schopenhauer -, ma con l'evolvere delle tecnologie «immersive» e la virtualizzazione sempre più spinta della nostra esistenza, cui gli strange days dell'ultimo anno hanno dato solo un'accelerazione brutalmente didascalica, quella condizione indecidibile in cui l'animazione in vitro è indistinguibile dalla vita «normale» ci si fa sempre più minacciosamente riconoscibile: soggettivamente «vera» ma, dall'esterno, del tutto «immaginaria». Anche per lo scetticismo radicale di Putnam, però, vale l'obiezione di Borges alla Trappola per topi, la rappresentazione-nella-rappresentazione del principe Amleto cui compiaciuti assistiamo «dall'esterno»: chi ci dice che noi spettatori, a nostra volta, non facciamo parte di un'ulteriore rappresentazione?

In tutti i suoi libri Torchio pare volerci mettere di fronte ai lemmi di un teorema del quale, per fortuna, non ci fornisce mai la soluzione. Qui fra i credits figurano Philip K. Dick e il grande psicotico Daniel Schreber (col suo esegeta Roberto Calasso) nonché la «community di r/schizophrenia»; e l'ipotesi più verosimile è quella che sia un apologo, appunto, sulla scissione della personalità di chi «non sa di essere già nello stesso posto». Ma non si pensi a una sotie alla Giro di vite: non c'è traccia di introspezione psicologica nella scrittura, asciutta al limite della screpolatura, che da sempre è quella di Torchio. A restare nella memoria, del suo libro, è viceversa la sensazione fisica, di queste vite così astratte. La plaga di Anna, allagata da «un bianco opaco, che cade da tutte le direzioni, e ci assorda», ricorda quella assiderata delle Stelle fredde di Guido Piovene; mentre l'esistenza focomelica dell'innominabile narratrice - che a tratti percepisce «il mondo senza pelle, i nervi umidi del mondo» - può ricordare quella di Body art di Don DeLillo. Putnam definiva quello del suo «esperimento» un «realismo interno»; Torchio, per parte sua, una volta di più dimostra che l'unico realismo che abbia senso perseguire è il più radicale: quello metafisico.



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